Chimera, Bologna

Chimera: Filippo Falaguasta, Giancarlo Norese
a cura di Fulvio Chimento
7 ottobre 2022 – 5 febbraio 2023
AF Gallery, via dei Bersaglieri 5/E, Bologna

Inaugura il 7 ottobre, alle ore 17, presso AF Gallery a Bologna la mostra CHIMERA, ideata dagli artisti Filippo Falaguasta, Giancarlo Norese e dal curatore Fulvio Chimento. Il progetto, che prevede la co-presenza di alcune opere dei due artisti per tutta la durata dell’esposizione, è ideato in modo unitario e risulta strutturato in due “movimenti”: dal 7 ottobre al 18 novembre l’attenzione è dedicata alle opere di Filippo Falaguasta, dal 25 novembre 2022 al 5 febbraio 2023 il focus si concentra sui lavori di Giancarlo Norese.

La stretta collaborazione tra artisti e curatore porta alla nascita di una mostra in grado di mescolare stili, percorsi, ironie e registri narrativi differenti, con la finalità di forzare le definizioni linguistiche in rapporto alle tecniche di produzione dell’arte. CHIMERA presenta opere che hanno segnato la produzione recente di Falaguasta e di Norese, a cui si affiancano lavori realizzati appositamente per l’evento bolognese. Ciò che accomuna la ricerca dei due artisti, e che li distingue nel panorama dell’arte italiana, è il tema del “rischio” legato al lavoro, un approccio che li porta a intendere l’arte in modo essenziale, come offerta disinteressata al flusso della creatività e alla libera fruizione del pensiero: un viaggio attraverso tecniche, azioni, relazioni e linguaggi, che fanno da specchio a esperienze di vita realmente vissute. Il fatto che questo patrimonio sappia trovare una restituzione artistica di valore è determinante, ma non rispecchia fino in fondo quel che si cela nei depositi dell’agire di Falaguasta e di Norese. L’immagine di un archivio ideale, impossibile da riprodurre e riordinare, è quella che maggiormente riflette l’esperienza artistica di Filippo Falaguasta, un archivio fatto di memorie, frammentati, pubblicazioni, che testimoniano le presenze “improvvise” dell’artista in mostre di grande valore. Nel suo pellegrinare tra Italia, Europa e Stati Uniti, Falaguasta ha esposto più volte in Germania, a Colonia (Galleria Esther Schipper, Galleria Michael Janssen, Galleria Monika Spruth), al Casino Luxembourg e nella mostra Custom Colors a New York, nel 1995.

Per Giancarlo Norese è invece l’idea di “scostamento” a restituire chiarezza sul diversificato e inafferrabile modo di concepire il flusso creativo, che per lui ha sempre a che fare con l’economia dell’essenziale e del quotidiano, intendendo la sopravvivenza artistica come primaria fonte di ispirazione stilistica. Il tema del portfolio è centrale nel lavoro intitolato Expertise Express (1997) in cui, in accordo con il gallerista De Carlo, Norese si applicava autonomamente alla lettura di portfolio di artisti che si affacciavano all’epoca alla galleria milanese. Norese raccoglie dati esperienziali, annota spunti sul reale, conversazioni intrattenute via e-mail con curatori e critici, come Hans Ulrich Obrist e Harald Szeemann: l’artista sembra interessato a tutto ciò che sfugge a interpretazioni univoche, il suo archivio digitale (e non) è parte integrante della sua produzione artistica.

Falaguasta e Norese hanno collaborato nel 2013 presso Playground, al Liceo Artistico Munari di Cremona, in un workshop che ha prodotto una serie di autoritratti di gruppo raffiguranti gli studenti e il personale della scuola. Norese, nel 2019 e 2020, ha inoltre dedicato due pubblicazioni (a edizione limitata) alla produzione e alla figura di Filippo Falaguasta. Tra loro il dialogo in questi anni è stato continuo. Ora la mostra CHIMERA accomuna in modo programmatico le figure di questi due artisti, che si distinguono per unicità e coerenza del loro percorso nel panorama dell’arte contemporanea italiana.

Fare cerchi, non-fare quadrati
di Federico Abate

Art is everywhere, even in art galleries. Così recita il manifesto (2008-2015) di Giancarlo Norese esposto nella vetrina della AF Gallery in occasione di CHIMERA. Nella pratica post-concettuale di Norese e di Filippo Falaguasta, l’altro protagonista della doppia mostra, l’arte è davvero “ovunque”: nello spazio pubblico, nelle relazioni interpersonali, in un’attività lavorativa appresa e reiterata, nelle esperienze che l’artista vive nella sua quotidianità.

L’arte è ovunque, talvolta anche nelle gallerie; le mostre assolvono la necessità di fermare per un attimo il flusso degli eventi e di tirare le somme del percorso compiuto. In questi casi, lo spazio espositivo si fa contenitore di testimonianze, così da dare conto di pratiche sfuggenti, che esorbitano dagli schemi e dalle categorie convenzionali entro cui normalmente si incasella l’operato di un artista. Il primo “movimento” di CHIMERA ha cristallizzato e riassunto quindici anni di vita di Filippo Falaguasta in una serie di documenti, istantanee e manufatti che attestano i lavori che ha svolto in quel periodo. Ventiquattro mansioni tra le più varie, tutte elencate in una dichiarazione di Offerta di prestazioni (1990-91), in cui i ruoli di “cuoco” ed “elettricista” sono equiparati a quelli di “artista concettuale”, “pittore figurativo” o “astratto”, “amico intimo”. Unica condizione posta da Falaguasta era che i datori di lavoro fossero individui o istituzioni connessi al sistema dell’arte. Su una parete della galleria si susseguivano le attestazioni delle prestazioni fornite (corredate da una serie di piccole fotografie, incorniciate come santini), per dare un riscontro immediato e telegrafico di quelle esperienze. Un excursus che dava conto di come negli anni Novanta Falaguasta fosse entrato in contatto, in modo rigorosamente indiretto e laterale, con molti operatori del settore, tra artisti, galleristi e curatori. Nel 1991 lo si trova impegnato come cameriere durante l’opening della mostra di Cindy Sherman presso lo Studio Guenzani, mentre in un’altra occasione lavora come baby-sitter per Corrado Levi. Non sempre riesce a portare a termine quanto concordato (su una “fattura” del 1997 si legge “ammetto senza alcun timore di non essere stato in grado di realizzare nessun tipo di lavoro”), ma anche questo fa parte dell’esperienza. 

Indubbiamente nel tempo Falaguasta sviluppa delle competenze lavorative negli ambiti più svariati. Si improvvisa anche fotografo di matrimoni, attività che la mostra documentava con quattro grandi fotografie di formato quadrato di coppie, totalmente ignare del fatto di star posando per un artista. Nella seconda sala della mostra era poi esposta una serie di quadri dipinti con calce a fresco su tela (2010-2020), anche in questo caso frutto di una competenza manuale acquisita in cantiere. I dipinti, delle rappresentazioni marmorizzate di vasi di piante, si aprivano ai lati di una riproduzione della Canestra di frutta di Caravaggio. Nella reinterpretazione di Falaguasta la frutta modellata dal chiaroscuro si prosciuga in motivi astratti che ricordano le concrezioni fossili incastonate nelle rocce sedimentarie. Così un’icona ormai divenuta pop subisce un processo di metamorfosi, che invece di alludere alla società dello spettacolo e ai mezzi di riproduzione industriale (come le Marilyn di Warhol, che non a caso si era formato come grafico pubblicitario) piuttosto reifica il vissuto di un impresario tuttofare attraverso la traccia tangibile del suo umile e faticoso lavoro di artigianato, che però cela sottopelle un richiamo alla grande tradizione dell’affresco. I dipinti esprimono vera genuinità e si fanno precipitati di esperienze. 

Il percorso artistico di Falaguasta ci comunica che chiunque può intraprendere lo stesso processo di immersione nella quotidianità e nel vissuto per trarne un senso personalissimo ed esistenziale; proprio per diffondere questa consapevolezza l’artista propose nel 1996 al Casino Luxembourg un Corso intensivo per intraprendere il mestiere d’artista contemporaneo, replicato l’anno successivo al Link di Bologna. Anche di questa iniziativa CHIMERA dava testimonianza, presentandone in vetrina il manifesto, che faceva il paio con quello di Norese. 

Se Falaguasta entra nel mondo dell’arte dalla porta di servizio recitando ruoli e imparando mestieri, Giancarlo Norese lo fa intrecciando relazioni e collaborazioni. La sua è una pratica precaria, interstiziale, che fa nascere fiori nelle crepe del sistema. Se nel 1995 Falaguasta, nella doppia veste di idraulico e muratore, rifà il bagno a Massimo De Carlo, nel 1997 Norese si offre di esaminare al posto di quest’ultimo, per tre mesi, le proposte degli artisti che desideravano essere rappresentati dalla sua galleria (Expertise Express, 1997). 

Nello stesso anno prende avvio il Progetto Oreste, un’esperienza comunitaria per artisti replicata poi fino al 2001 tra Paliano (FR) e Montescaglioso (MT) e animata da uno spirito libertario e antigerarchico, che metteva al centro la condivisione di idee e progetti. Norese, che è uno degli organizzatori, invita tra i tanti anche Falaguasta, conosciuto poco tempo prima. Compatibilmente con una concezione del libro d’artista che può essere anche resoconto di pratiche relazionali non strettamente performative e altrimenti non documentabili, stila anche un diario giornaliero delle attività svolte in quei giorni conviviali. Così, alla data di mercoledì 16 luglio 1997, capita di leggere: “Falaguasta ripropone una sua vecchia idea, quella della O di Giotto: ovvero, una gara di abilità manuale per artisti concettuali. Avendo egli procurato dei fogli e dei pennarelli marca Giotto, si procede alla manifattura dei cerchi e, dopo un testa a testa e uno spareggio con Campanini, Norese si aggiudica il trofeo per acclamazione corale”. Nell’espressione “gara manuale per artisti concettuali” si riverbera l’essenziale dicotomia tra mente e corpo, ozio e negozio, esistenza ed esperienza che può essere ricondotta alle pratiche di Filippo Falaguasta e Giancarlo Norese negli anni a venire: da una parte l’ideatore concettuale della gara-performance, in verità un lavoratore indefesso che riporta alla luce, ma in tono minore, la dimensione del cantiere delle imprese ad affresco dell’epoca di Giotto; dall’altra colui che, con la gara di abilità, è davvero diventato, per “acclamazione corale”, un nuovo Giotto (e contemporaneamente anche un nuovo Vasari, dato che consegna ai posteri il racconto dell’episodio, ambientato stavolta non più alla corte di Benedetto XII bensì nella foresteria comunale di Paliano), ma che rigetterà programmaticamente la circolarità perfetta della O (l’arte come virtuosismo del gesto) preferendole un “non-fare” contemplativo, orientato alla ricerca di “forme d’arte senza forma”. 

Tanti anni dopo Norese concepirà a Corbetta (MI) una mostra dal titolo L’inattività come verità effettiva dell’uomo (2016), preso in prestito da un saggio del 1921 di Kazimir Malevic. Sulle pareti, ad altezze casuali, era allestita una sequenza di objets trouvés modificati, ovvero dei quadri tradizionali trovati sulle bancarelle e privati delle loro cornici (accumulate da una parte), sui quali l’artista aveva dipinto al centro quadrati rossi che riecheggiavano il nuovo sole suprematista del pittore ucraino – non più un cerchio luminoso e “giottesco”, bensì un quadrato abissale e meccanico. Facendo fede alla dichiarazione del titolo, per la seconda sala Norese si rifiutava deliberatamente di “fare”, delegando proprio a Falaguasta il compito di esporvi qualcosa (i suoi dipinti ad affresco, ma anch’essi appoggiati l’uno davanti all’altro come in un deposito) e generando così il cortocircuito per cui l’atto artistico coincideva con la sua assenza.

Pratica tutt’altro che facile, quella di “non fare”, tanto che l’artista mi scrive: “Io rischio tutto, ed è un rischio che coinvolge unicamente me stesso. Lavoro solo gratis ma voglio essere pagato per non fare nulla. Obiettivo totalizzante, impegnativo, estremizzato nel quotidiano e dunque molto rischioso…”. Una risposta a distanza a Falaguasta, che nella sua parte di CHIMERA parlava di tangibilissimi pericoli sul lavoro, esponendo la foto di un operaio schiacciato da un tornio, in dittico con una foto di se stesso nel ruolo di tornitore. 

Alcuni dei quadri di Corbetta ritornano oggi nel secondo movimento di CHIMERA. La mostra propone anche un altro lavoro che insiste sulla relazione, di per sé paradossale, tra la pittura e un’idea di arte “acheropita”, che si produce da sola, cioè 51556 svizzeri residenti in Italia al 2015 secondo l’ufficio federale di statistica (2016): cinque tele su cui baluginano le cifre di un dato numerico fine a se stesso, affiorate spontaneamente una volta versato il colore sulla superficie, in quanto precedentemente tracciate con l’olio di lino privo di pigmento. Anche Marxxx (2015) ha a che fare con il medium pittorico, ma stavolta Norese, invece che astenersi dal fare, “fa” più del necessario: dipinge per ben tre volte, una sull’altra, l’effigie del giovane Marx, irriconoscibile rispetto ai tratti della maturità e per questo priva del suo usuale portato politico. Alla fine, questo Marx con tre x “vale il triplo”, ma è ignoto a tutti il valore da triplicare. L’eccesso di manualità diventa atto concettuale. In Toposphere (2022), un’elaborazione grafica che evoca il profilo di Mickey Mouse, è invece il pianeta Terra ad essere triplicato, alludendo al fatto che l’umanità sta consumando il triplo delle risorse rispetto a quanto produce il pianeta ogni anno.

Marxxx è un’opera-palinsesto in cui le immagini sepolte sotto strati più nuovi di pittura restano comunque attive e significanti. Norese ha fatto ricorso alla stratificazione anche nell’opera prodotta per la mostra Prossimamente (2022), durata un pomeriggio in un cinema in disuso di Varese ed interdetta a chiunque se non agli artisti invitati: una scopa trovata nello stabile sosteneva un manifesto che mostrava la fotografia, scattata in una sua mostra precedente, di un assemblage di manifesti relativi ad altre mostre ancora precedenti. Alla AF Gallery di quell’opera altrimenti non esperibile è esposta una foto di documentazione, Prossimamente, Varese 2022 (2022), la quale non può che essere lo stadio ulteriore (probabilmente non l’ultimo) di una mise en abyme vertiginosa. Le fotografie adiacenti documentano altre operazioni minime e talvolta fallimentari, come un’azione svolta a Bucarest in cui l’artista aveva tentato, senza successo, di far affiorare su un muro i nomi delle sue ex-fidanzate, riscaldando con una fiammella le scritte tracciate con il succo di limone (Unsichtbar Machen (My attempt at making lemon juice writings visible on the wall), Bucarest 2013). In un’altra circostanza prende parte ad una mostra di interventi interconnessi tra diversi artisti, strappando una foto di Vladimír Havlík ed invertendo le due metà (Deconstruction of Vladimír Havlík, Olomouc 2017). Il graffito in anamorfosi Making a whole (2008) a Crotta d’Adda (CR) disegna, dalla giusta prospettiva, un cuore fragilissimo, perché basta spostarsi di un passo per lacerarlo. E a volte il dolore per un cuore lacerato è terribile e totalizzante, per anni tormenta e ottunde la mente, fino a che non si tenta di esorcizzarlo con un video terapeutico e un servizio fotografico, piangendo tutte le proprie lacrime in un costume da Superman (Starting with S, 2006). 

Tutto termina ricominciando: Norese espone come opera sua una fotografia scattata durante l’inaugurazione della mostra di Falaguasta e rifotografata da lui stesso contro lo sfondo anonimo del parcheggio di un centro commerciale (Autopromozione, Serravalle Scrivia 2022). Nella vetrina, accanto al manifesto di Norese che continua a sentenziare che “l’arte è ovunque, anche nelle gallerie”, adesso campeggia un bel vaso di fiori di Falaguasta, Niente titolo (2010-2020); e il cerchio (giottesco) si chiude.

Un articolo di Serena Carbone su antinomie.it